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Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà

Sono un maschio bianco etero di 57 anni. Il mio cervello (che ho battezzato Oskar per distinguerlo da tutti gli altri cervelli homo sapiens sapiens che mi circondano e che interagiscono con lui) è il cervello di un maschio bianco etero cresciuto all’ombra del patriarcato.
Non che si sia mai sentito a suo agio quando, fin dai tempi della scuola, nei discorsi da spogliatoio le ragazze venivano ridotte a fighe. Ma, essendo Oskar, come tutti i suoi colleghi, molto attento a non mettermi in una posizione di emarginazione rispetto ai miei pari (in outgroup direbbero gli psicologi sociali), non dicevo mai niente contro le battute da spogliatoio. Oskar mi ha permesso di navigare nel mondo dei miei simili maschi etero senza mai compromettermi esplicitamente ma altrettanto senza mai oppormi esplicitamente a quello che a un maschio bianco etero capita di sentire quando li frequenta: gli spogliatoi degli anni ‘80 sono diventati le chat sui canali nerd degli anni 90 e tutte le varianti successive fino ai gruppi whatsapp. Ovviamente Oskar ha incontrato l’immaginario del porno, che è passato dai giornaletti trovati nei cespugli dietro la Fortezza da Basso a Firenze negli anni ‘70 a Pornhub, e che, come fa notare @VanessaRoghi, potrebbe avere a che fare con la cultura (o subcultura, speriamo?) dello stupro come forma di divertimento di gruppo del sabato sera.
Sì lo so è terribile anche solo scrivere la frase precedente, ma è quello che probabilmente passava nei cervelli dei ragazzi di Palermo il venerdì e qualche relazione con quello che hanno messo in atto sabato potrebbe averla.
Quello che faceva Oskar negli anni ‘80 quando ascoltava le conversazioni da spogliatoio però, non era solo tacere, Oskar ascoltava e non sapeva come trattare quel senso di estraneità e disagio e imbarazzo rispetto a quel discorso. Però ascoltava e sapeva due cose: non voleva partecipare a quei discorsi, ma il sesso e le ragazze erano molto interessanti ma solo se l’interesse fosse stato reciproco. Nemmeno nelle fantasie private Oskar ha mai trovato eccitante l’idea di trattare il corpo di un altr* come un oggetto da distruggere o come così insignificante da non essere dotato di emozioni. Immagino che di fondo Oskar, per ragioni che non esplorerò qui, faccia parte del gruppo di cervelli che è diventato capace di empatia verso gli altri e di collegare l’idea di piacere sessuale con quella di relazione (è qualcosa che si costruisce, non è un dato genetico, perchè dal punto di vista anatomico cerebrale il piacere sessuale non è nella stessa zona del piacere relazionale. Inoltre non è nemmeno un dato slegato dal contesto (traumi, la cultura, il contesto, guerre etc. possono cambiarlo).
Di fronte a fatti di cronaca come quello dello stupro a Palermo di questi giorni la reazione difensiva all’orrore (o meglio alle emozioni di fronte all’orrore) per Oskar e i suoi simili è ricorrere alla repressione (la legge) o alla spiegazione. Purtroppo sono solo reazioni difensive, utili solo in certi ambiti: la deterrenza certo aiuta a ridurre in futuro gli stupri, la spiegazione si porta dietro la promessa illusoria che se scopro “perché” un gruppo di ragazzi fa questo, allora potrò impedirlo.
Io (e non Oskar, che sottoscrive subito sia l’ipotesi repressiva sia quella esplicativa), forse per il riflesso condizionato dello spogliatoio anni ‘80, non riesco a concentrarmi su nessuno dei due aspetti: una parte di me continua a pensare che mi interesserebbe solo un’ipotesi che salvi tutti, perchè parafrasando in senso non sessista il poeta John Donne ogni morte di essere vivente mi diminuisce perchè partecipo (e voglio partecipare) dell’umanità (e perfino dell’animalità): voglio qualcosa che salvi stuprat* e stupratori prima che entrino in quell’inferno. Al momento non l’ho trovata, ma non riesco a consolarmi con la legge o le spiegazioni culturali, per cui in pratica continuo a fare il mio mestiere (salvare il mondo cercando di avere cura di qualche essere umano alla volta).
Credo che quello che potrebbe aiutarmi (aiutarci?) è una variante del principio gramsciano: pessimismo della ragione e ottimismo della volontà (scetticismo permanente e fatica di voler bene). Per il primo la storia di Kitty Genovese è il mio esempio preferito di quanto bisogna essere cauti rispetto alla realtà che ci viene servita dai media. Per il secondo, il ricordo di una breve conversazione con mio figlio quando aveva 11 anni, in cui Oskar ha tirato fuori il ricordo delle emozioni da spogliatoio.
1) Pessimismo della ragione: sono pessimista perchè la nostra specie ha così bisogno di storie che diano un senso alla vita e in questo caso all’insensatezza della violenza che sia il nostro cervello sia la collettività dei nostri cervelli confabulano continuamente nel farlo e spesso perdono il valore prezioso di essere testimoni dell’insensatezza e delle emozioni che ci legano all’altro, in definitiva l’amore.
2) Ottimismo della volontà: sono ottimista perchè si può fidarsi di qualcuno, lasciarsi andare, essere ascoltati e rassicurati sul fatto che la nostra fragilità va bene, che possiamo essere diversi dagli altri e allo stesso tempo al sicuro, il branco non è l’unico modo per avere cura di sé (e il branco spesso è fatto di persone che non hanno potuto imparare la cura di sé).
Quindi, inizio con l’argomento a favore del pessimismo della ragione:
Il 13 marzo del 1964, alle tre del mattino, una giovane donna, Kitty Genovese, 29 anni, fu uccisa con due coltellate mentre rientrava a casa dopo aver parcheggiato l’auto a 30 metri da casa.
Nel trafiletto apparso il 14 marzo sul New York times si legge solo la ricostruzione che riferisce di una donna accoltellata e uccisa davanti alla sua abitazione e dei vicini, svegliati dalle sue urla, che l’hanno trovata a tre portoni di distanza.
Per la New York del 1964, probabilmente era il massimo che ci si può aspettare di trovare nella cronaca nera e infatti per due settimane, nessuna altra notizia racconta della tragedia di Kitty Genovese.
IL 27 marzo però, un articolo su quattro colonne corredato di fotografie che spiegano la dinamica dell’aggressione scatena una serie di effetti che si sviluppano nell’arco di quasi 60 anni, fino a quello che sto scrivendo oggi.
L’articolo è intitolato “37 persone che hanno visto l’omicidio non hanno chiamato la polizia”.
Il giornalista Martin Gansberg ricostruisce l’aggressione e racconta che l’ispettore di polizia Frederick Lussen, “veterano con 25 anni di esperienza in omicidi” è sconcertato dall’omicidio non tanto perchè è un omicidio ma perchè “quelle brave persone dei vicini non hanno chiamato la polizia. […] In base alla ricostruzione del crimine, l’assalitore ha aggredito 3 volte la vittima in 35 minuti, se fossimo stati chiamati subito la vittima sarebbe ancora viva”.
A partire da quel giorno, succede che:
1) seguono altri articoli di approfondimento
2) John Darley, un ricercatore dell’università di New York, si pone la domanda “come mai nessuno ha chiamato la polizia?” e inizia una corrente di studi in psicologia sociale che studia appunto l’effetto spettatore e tre anni dopo insieme a un collega pubblica il primo di una serie di studi che durano fino a oggi. La narrazione, diremmo oggi, di questo evento in realtà mai accaduto (ci furono chiamate e tentativi di soccorso), genera un filone di ricerca scientifica.
3) la società giornalistica Silurian candida Martin Gansberg per il miglior articolo dell’anno
4) La narrazione prende così piede che quando trentadue anni dopo, nel 1996 Martin Gainsberg morirà, il suo epitaffio sul New York Times ricorda il suo articolo e il fatto che la Newspaper Reporters Association gli dedicò una targa proprio per quell’articolo.
5) L’assassino Winston Moseley, psicopatico da manuale sposato con figli, viene catturato per altri omicidi, e dichiara che il movente per uccidere Kitty era “la voglia di uccidere una donna”.
6) Nel 2012, nel mio libro di esame universitario di psicologia sociale, la storia di Kitty Genovese è riportata ancora secondo la narrazione creata da Gansberg.
L’aspetto interessante sta nel fatto che la narrazione della tragedia di Kitty Genovese è servita a tutto fuorché a dare un senso a quello che accadde quella notte.
Quello che non c’è nel modo in cui è stata narrata e usata la tragedia di Kitty è un intero universo di informazioni che avrebbero potuto cambiare la storia. A solo titolo di esempio, alcune informazioni che avrebbero potuto entrare nella narrazione (e molti anni dopo ci sono anche entrate, ma non hanno scalfito il mito e soprattutto il vizio metodologico):

  • KItty era una donna
  • Kitty era italoamericana
  • Gestiva in proprio un bar equivoco in cui si facevano scommesse
  • Era lesbica e 40 anni dopo, la partner con cui viveva la ricorda in questa intervista radiofonica
  • la vicina di casa Sophia Farrar corse in aiuto di Kitty appena sentì le urla (il tempo di vestirsi), la prese in braccio e le sussurrò “sta arrivando l’aiuto” mentre aspettava l’arrivo dell’ambulanza (dove poi Kitty spirò)
  • Cinquanta anni dopo, nel 2015 è uscito il film in cui il fratello Bill ricostruisce la storia di Kitty e finalmente c’è un atto di amore in questa storia di manipolazione conscia e inconscia dei sentimenti dell’opinione pubblica e dell’industria che fioriva già 60 anni fa e che nel frattempo si è solo perfezionata e incarognita.
  • Il movente dell’assassino era un esempio di puro femminicidio
  • A proposito di atti d’amore, ce n’è un secondo: nel film compare Sophia Farrar che offre il senso di quello che significa un atto d’amore, chiedendosi, a proposito del momento in cui ha soccorso Kitty: “Spero solo che sapesse che ero io, che non era sola”

    Mi chiedo quando saremo capaci come collettività di farci domande come queste invece di correre alle risposte e ai linciaggi che ci rendono uguali a Winston Moseley, con la sola voglia di ammazzare uno stupratore (Moseley è morto nel 2016 e non si è mai nemmeno vagamente pentito).
    Mi chiedo quando ci concentreremo sull’essenziale: non lasciare soli i figli nostri e degli altri e le innumerevoli Kitty.
    Qualche anno fa ero a New York e sono andato a cercare la casa di Kitty, 8 west 83rd st. per sedermi sulla soglia della casa (non sono sicuro di averla azzeccata), e commemorarla come si deve.

2) Ottimismo della volontà:
Un giorno, all’inizio della sua preadolescenza, mio figlio è seduto sul divano mentre io sto giocando ad Halo 5 dalla poltrona: passa sua madre e lascia cadere la bomba: “Franci perchè non chiedi consiglio a papà?” Franci ha molta più confidenza con la mamma: io faccio il padre come me lo tramanda la tradizione in cui sono cresciuto: padre affettuoso ma poco incline alle confidenze tra maschi.
Comunque ormai la bomba è lanciata: “consiglio su cosa?” chiedo. Tergiversa un po’, poi arriva al punto: i suoi amici preadolescenti con il testosterone in libera uscita parlano continuamente di “farsi quella”, “limonare con quell’altra”, qualcuno si vanta di imprese più o meno immaginarie, qualcuno ogni tanto quando sono tutti insieme al parchetto si allontana con la tipa etc.
Il quadro mi è chiaro, qual’è il problema? Il problema è che mio figlio per tutta questa roba e la relativa impostazione machista con cui si atteggiano i suoi amici non ha ancora interesse e sente la pressione del gruppo, si domanda se è normale non avere tutta questa voglia di parlare e agire in quel modo. Gli dico che anch’io alla sua età ero molto a disagio con quel modo di parlare di ragazze (ha dall’infanzia amiche e amici in egual misura: nel mio unico scherzo sciovinista dico sempre a mia moglie, pensando alla mia adolescenza, che gli toccherà il destino di amico delle donne, per cui poco sesso e tanto affetto…) e gli racconto la scena degli spogliatoi. Sono emozionato per questa incursione nelle nostre reciproche intimità di maschi, ma alla fine (la conversazione sarà durata cinque minuti in tutto), gli dico anche che c’è tempo per tutto e che non è obbligatoria la postura “munizioni pronte e cazzo dritto” (non glielo dico così, non ha visto ancora Full Metal Jacket). Franci dice “Meno male ero davvero in ansia, pensavo che non ero normale” e mentre lo dice sento il suo orgoglio di essere come suo padre, e allo stesso tempo “valido”.
Padre introverso 1, gruppo dei pari 0.
Sono passati cinque anni, l’adolescenza di mio figlio è un tripudio di avventura, il testosterone fa il suo lavoro sugli addominali, nel parkour e nella creatività, I gruppi dei pari sono aumentati e cambiati perchè se li è scelti, c’è stato un primo (e per ora unico) San Valentino in coppia (il suo massimo di concessione al rituale), le amiche che vorrebbero essere “qualcosa di più” si aggirano per casa.
Quella piccola imtimità rimarrà uno dei momenti che mi dà speranza e credo che sia l’antidoto alla disperazione malefica e violenta in cui tutti rischiamo di affondare quando non ci sentiamo in diritto di essere noi stessi (e il noi stessi è sempre, almeno un po’, confuso e indefinito).