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A proposito di SANPA

Da ex assiduo frequentatore del mondo delle comunità di accoglienza negli anni ’80 (non è rilevante in quale ruolo o da quale parte della barricata) ho amato la ricostruzione Netflix su SanPatrignano. Amo molto meno il dibattito social polarizzato su Muccioli sì, Muccioli no, Sanpa è ben altro ecc.. soprattutto quando chi partecipa appiattisce il senso storico e sociale dell’eroina in Italia sulla storia di quella istituzione e del suo fondatore. Vale un po’ lo stesso per le tante storie umane di “tossici” (da Cristiana F. e i Ragazzi dello Zoo di Berlino in avanti).Tutti i “fondatori” di comunità (anche, in generale i fondatori di qualunque cosa) hanno tratti megalomani, narcisisti, vagamente sociopatici o criminali e così via: ne ho conosciuti parecchi (uno l’ho amato come un padre) e arriva sempre il momento in cui cadono nella polvere delle loro debolezze (o crimini, come nel caso di Muccioli). Credo che se si potesse analizzare il fenomeno, la quantità di cocainomani, stupratori, manipolatori delle persone fragili ecc. tra i fondatori delle discipline di aiuto che andavano per la maggiore nel ventesimo secolo si scoprirebbe essere molto superiore alla soglia casuale del 50%. A iniziare da Sigmund Freud. Se dobbiamo prendercela con uno dei tanti, dopo aver visto una docu-serie di ottima fattura, va bene, un giorno in meno passato a odiare o idolatrare Salvini. Però a me interesserebbe di più allargare la prospettiva e cercare di afferrare insieme il senso macro e micro di quello che è avvenuto a quella generazione (e ai loro figli). Dico generazione perché anche la divisione tra famiglie con “tossici” e famiglie “normali” non aiuta a capire: il tema e i suoi effetti sono stati trasversali (ricordo la faccia terrorizzata di mio padre quando a 20 anni gli ho detto casualmente “be’ una canna me lo sono fatta anch’io”: ed era il padre di una famiglia in cui droghe più o meno legali, alcool incluso, non hanno mai avuto un posto tra i problemi familiari, ma proprio per questo era parte del problema, tanto riflesso automatico di rifiuto e paura gli creava la sola ipotesi che un figlio “accettasse caramelle dagli sconosciuti”).Nel mio lavoro incontro “figli di” (di un trauma, di uno o due genitori traumatici) e tra i trenta/quarantenni di oggi ci sono anche i figli dei “tossici” degli anni ’80. Hanno avuto genitori più o meno compensati o contenuti dalle famiglie di origine o dalle comunità (più o meno autoritarie) ma la fatica psichica che fanno oggi è tanta e non riconosciuta (paradossalmente oggi che lo stigma di “drogato” non è più, per fortuna, forte, devono sentire quello di “sfigato depresso e ansioso” che “non ce la fa senza gli psicofarmaci”).

Tra i “figli di”, Vanessa Roghi qualche anno fa ha tentato (con successo secondo me) di raccontare la propria storia di figlia di tenendola insieme alla storia di questo paese e della sua immersione nel sistema droga. Se vi interessa il tema (e se ancora leggete :-)) è un ottimo pendant alla serie Netflix.

La copertina del libro di Vanessa Roghi

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